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editor Fabio Bonacina

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Il rischio è che le singole attività oggi esercitate da Poste italiane valgano meno della loro somma

Attendendo le decisioni del Governo in materia di privatizzazioni, la lente si è posizionata anche su Poste italiane. A sostenere l’ingresso nel mercato della società ora detenuta completamente dal ministero dell’Economia e delle finanze è pure l’Istituto Bruno Leoni.

Una procedura -viene spiegato- “certamente possibile e auspicabile, ma di non semplice realizzabilità”, perché la natura conglomerale dell’azienda “costituisce un ostacolo alla vendita immediata e integrale”. “Richiederebbe uno «spezzatino» in cui il valore totale delle singole attività alienate sarebbe probabilmente inferiore a quello attuale del gruppo”.

Potenzialmente, gli investitori privati sono interessati ai settori finanziari e assicurativi ad elevata redditività, molto meno a quelli postali (tranne alcuni segmenti, come i recapiti nelle grandi aree urbane), in perdita a causa dei bassi volumi di posta complessivamente recapitati.

Ma quali sono i motivi della limitata domanda, tre-quattro volte inferiore in termini procapite rispetto a quella dei principali Paesi europei? Le ragioni -si legge nel rapporto- “sono di natura strutturale, economica e culturale, perché le imprese e i cittadini italiani preferiscono comunicare per via orale -non a caso il tasso di penetrazione dei cellulari in Italia è fra i più alti al mondo- ma non amano le comunicazioni scritte, come mostra lo stesso differenziale negativo rilevato nel numero di giornali e riviste venduti”.

Presupposto per privatizzare “è dunque una trasparente societarizzazione delle diverse attività -attualmente Bancoposta è separato dai servizi postali solo dal punto di vista contabile- con un chiaro ruolo attribuito alla rete degli uffici postali”, vera risorsa strategica del gruppo ed utilizzata per commercializzare prodotti e servizi. Tale strada “non implicherebbe la trasformazione di Bancoposta in una banca tout court, evitando così il passaggio assai oneroso dei dipendenti degli uffici postali al settore bancario, e lascerebbe allo Stato la possibilità di sfruttare la rete postale per erogare propri servizi ai cittadini, come infatti stanno facendo oggi alcuni Paesi europei prendendo esempio proprio dall’esperienza italiana”.

In questo quadro, all’inizio si potrebbe “privatizzare parzialmente l’intero gruppo con la vendita di alcune quote societarie, mantenendone l’unitarietà proprietaria, per procedere poi gradualmente a successive vendite fino alla completa dismissione”, ad oggi realizzata solo in Germania e nei Paesi Bassi. Sapendo, inoltre, che l’attuale assetto organizzativo e proprietario di Poste italiane “è a forte rischio di conflitto d’interesse” (lo Stato vende attraverso Poste propri titoli ma ricava sostanziosi dividendi), “alimentato anche da una regolamentazione chiaramente insufficiente e inefficiente”.

Gli elevati profitti realizzati con Bancoposta e Poste vita, poi, riducono gli incentivi al pareggio di bilancio nei servizi postali, recentemente liberalizzati, “spingendo l’azienda pubblica a praticare dumping in questi ultimi al fine di mantenere alte le quote di mercato e a proseguire nella fissazione di prezzi politici di cui sono beneficiari solo alcuni grandi clienti”. Si tratta di una forma di sussidio incrociato che poteva essere legittima in monopolio perché finanziava il servizio universale, ma che oggi si scontra sia con qualsiasi progetto di privatizzazione, sia soprattutto con la necessità di garantire una efficace vigilanza sui prezzi: fintanto questi sono sotto costo, “non si potrà mai sviluppare alcuna forma di concorrenza nei nuovi mercati postali interamente liberalizzati”.

L'intervento dell'Istituto si inserisce in un contesto più ampio
L'intervento dell'Istituto si inserisce in un contesto più ampio



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