La famosa bozza del decreto che il presidente del Consiglio dei ministri avrebbe dovuto sottoscrivere una volta giunti alla versione definitiva è lì, su alcuni tavoli della Camera e del Senato. Quale sarà il suo futuro, vista la crisi della compagine governativa e visto che lo stesso ministro all’Economia e alle finanze, Fabrizio Saccomanni (cioè colui che l’aveva portata in Parlamento), ora appare fuori dalla lista dei possibili confermati? Non si sa. Come peraltro non si conoscono i destini degli altri mille provvedimenti, tutti urgenti e indifferibili, ancora una volta bloccati. Dunque, si è fermato il progetto di vendere parzialmente Poste italiane, costituita da 1.306.100.000 azioni ordinarie, dal valore nominale di 1,00 euro ciascuna e tutte detenute dal Mef. Curioso un fatto: l’amministratore delegato della società, Massimo Sarmi, sottolineò in un incontro con i sindacati che “si tratta di una apertura al mercato di una quota minoritaria del capitale di Poste e non di una privatizzazione”. Ma nei titoli dei documenti che circolano in Parlamento figura il più sbrigativo “Privatizzazione di Poste italiane”. Il provvedimento, ammesso e non concesso che venga convalidato tal quale dal prossimo Esecutivo, comprende un solo articolo e ribadisce gli elementi già noti: lo Stato dovrà mantenere una partecipazione del capitale “non inferiore al 60%” (quindi, il discorso dello stesso Saccomanni di procedere ad ulteriori trasferimenti era solo teoria futuribile); la cessione “potrà essere effettuata, anche in più fasi”, attraverso un’offerta pubblica di vendita rivolta ai risparmiatori in Italia e/o ad investitori istituzionali anche stranieri; “potranno essere previste” forme di incentivazione in favore dei dipendenti del gruppo Poste, “in termini di quote dell’offerta riservate e/o di prezzo e/o di modalità di finanziamento”. Chiaro il concetto in premessa: nell’operazione dovranno essere assicurati, “tra l’altro, gli obiettivi dell’azionariato diffuso e della stabilità dell’assetto proprietario, anche in considerazione della tutela delle caratteristiche di servizio di pubblica utilità della attività svolta”. Nulla in più, o di non conosciuto, figura nelle due pagine intitolate “Relazione illustrativa”. Qualche dettaglio proviene da ciò che Saccomanni ha affermato: due giorni fa è stato ricevuto in audizione alla commissione lavori pubblici e comunicazioni del Senato. Parlando in generale, ha confermato che gli introiti delle cessioni dirette sarebbero stati destinati esclusivamente al fondo ammortamento dei titoli di Stato, quindi alla riduzione del debito pubblico. Quanto agli esiti delle alienazioni indirette (riguardanti, cioè, società di società), sarebbero serviti a ripianare gli eventuali “rossi” delle aziende controllanti e permettere loro investimenti; solo nel caso fossero in attivo, il ricavato sarebbe passato al Mef. Concentrandosi sull’azienda presieduta da Giovanni Ialongo, e visto che mantiene da anni bilanci positivi, l’ingresso sul mercato potrebbe soltanto “determinare ulteriori processi di miglioramento delle performance”; “potrà beneficiare anche di un nuovo canale di approvvigionamento (la Borsa) per il supporto delle proprie strategie di sviluppo e rafforzamento competitivo”. Risulterebbe opportuno -viene annotato, in altro documento, dalla commissione trasporti, poste e telecomunicazioni della Camera- “acquisire chiarimenti sulla misura della riduzione del debito che si ritiene attuabile mediante la norma in esame”. Ci sarà una risposta?
Privatizzazione. Ed ora?
14 Feb 2014 12:32 - NEWS FROM ITALY
Con la crisi politica, che fine farà? Intanto, sui tavoli di Camera e Senato vi sono le idee dell’ormai ex Governo e le dichiarazioni dell’ormai ex ministro, Fabrizio Saccomanni