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editor Fabio Bonacina

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Dall’ufficio legislativo del dicastero per i Beni e le attività culturali, luce su un problema annoso che interessa direttamente i collezionisti

La mera circostanza che un documento sia indirizzato ad una Pubblica amministrazione, non può “per sé sola considerata, fondare una presunzione di attuale proprietà pubblica della cosa” e, ancora prima, non può neppure “far presumere che la cosa sia effettivamente stata inclusa in una pubblica raccolta archivistica alla quale sia stata illecitamente sottratta”. Occorre “il concorso di ulteriori elementi concordanti, idonei a dimostrare l’effettiva e attuale appartenenza allo Stato”.

Cinque lunghe e fitte pagine, scritte in un linguaggio tecnico, per contribuire a chiarire una situazione annosa, che si trascina da decenni. Portano la data del 22 novembre e provengono dall’ufficio legislativo, che fa capo al ministero per i Beni e le attività culturali, firmate dal suo responsabile, Paolo Carpentieri. Il punto di partenza è il quesito, sottoposto dalla Federazione fra le società filateliche italiane, “concernente la possibilità di presumere l’appartenenza alle pubbliche raccolte dei documenti indirizzati ai soggetti pubblici”.

Nel testo viene spiegato, fra l’altro, che “i documenti presenti negli archivi dello Stato e degli Enti territoriali hanno acquisito natura demaniale soltanto a seguito dell’entrata in vigore del Codice civile del 1942”.

Ogni registro o singolo fascicolo attraversa tre fasi, la cui durata specifica è variabile: in una il materiale rimane attivo, ossia “disponibile per l’ordinario e quotidiano svolgimento della «vita» stessa dell’istituzione”. Vi è poi un periodo di semiattività, nel corso del quale l’accesso presenta carattere più o meno sporadico. Infine, vi è la “storicizzazione”, con la quale l’oggetto è destinato -“previa effettuazione delle indefettibili operazioni di scarto”- alla conservazione. Le alienazioni, regolari, potrebbero incorrere già nella fase di vita ordinaria: trascurando i casi di sottrazione o soppressione di pubblici documenti, che presentano rilevanza penale, vi sono ipotesi del tutto normali, “come la non inclusione negli stessi fascicoli delle buste con le quali gli atti sono stati trasmessi”.

Non è quindi possibile trarre un principio generale, ma bisogna valutare il caso concreto, “alla luce della conoscenza della storia di ciascun archivio e della sua formazione”. Perché -conclude l’ufficio legislativo del Mibac- “deve ritenersi possibile l’esistenza di carte e documenti indirizzati a soggetti pubblici, sia risalenti all’epoca del Regno d’Italia che a quella degli Stati italiani preunitari, legittimamente possedute da soggetti privati, poiché è astrattamente plausibile: a) che tali carte siano state ritenute irrilevanti già al momento del loro utilizzo per l’attività corrente (circostanza certamente non inverosimile, ad esempio, con riguardo alle buste); b) che, ove ritenute irrilevanti in momenti successivi, a seguito di operazioni più o meno accorte di selezione e di scarto, non siano state destinate alla distruzione; c) che siano state disperse o sottratte in un momento diverso, ma antecedente all’entrata in vigore del Codice civile (quindi 1942, ndr), che ha attribuito alle raccolte archivistiche degli enti territoriali carattere demaniale, così sottraendole all’ordinario regime dell’usucapione”.

Il documento proviene dall'ufficio legislativo del ministero
Il documento proviene dall'ufficio legislativo del ministero



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