Non solo la vicenda della “Venere di Morgantina”, per il ritorno della quale la Provincia di Enna ha chiesto un francobollo.
Il libro di Fabio Isman “I predatori dell’arca perduta”, citato nella news precedente, si fa notare anche per come le lettere vengono usate nell’ambito delle indagini riguardanti -lo precisa il sottotitolo- “il saccheggio dell’archeologia in Italia”.
Uno degli strumenti impiegati per giustificare la presenza in mani non autorizzate (tombaroli, rivenditori di vari livelli, collezionisti e musei piccoli e grandi) di materiali scavati senza alcun permesso è creare un pedigree antico, così da non incorrere nelle leggi introdotte negli ultimi decenni. E le lettere d’epoca possono essere utili, ammesso che non siano artefatte. Come è accaduto con la vicenda di un “kouros” greco arcaico conservato al Metropolitan museum of art di New York. Le carte su cui fonda la provenienza sarebbero false, e il giornalista cita alcuni dettagli riportati da Malcolm Gladwell nel saggio “In un batter di ciglia”, dove il codice postale (introdotto solo successivamente alla data presente nel testo) o un conto bancario (che all’epoca non era stato ancora aperto) vengono utilizzati per dimostrare l’imbroglio.
Nel caso siano autentici, gli scritti epistolari si trasformano, appunto, in prova di esistenza, nell’episodio specifico una affermazione affidata alla carta che un certo reperto è stato visto in una determinato luogo in un particolare anno.
Ma le missive -“davvero imbarazzanti”, commenta Isman- possono dimostrare che le cose sono diverse da quanto si afferma. Le dichiarazioni di Marion True, del Paul Getty museum, risultano smentite dagli scritti che lei stessa nel tempo ha inviato ai suoi interlocutori e in particolare ai maggiori mercanti. Dietro c’è la struttura creata da Jean Paul Getty (1892-1976), magnate del petrolio che amava le antichità e cominciò a collezionarle nel 1938. Aveva, tra l’altro, una villa a Palo Laziale, la “Posta vecchia” del castello Odescalchi, ora un hotel di lusso.
Il volume racconta la “grande razzia” perpetrata in Italia dal 1970 al 2004: milioni di reperti, “spesso autentici tesori unici al mondo, scavati clandestinamente”, che restano stupendi ma che, per i criteri di scavo adottati, clandestini e non scientifici, “sono ormai privi del loro passato, sradicati dai propri contesti”. E tutto questo “a suon di milioni di dollari”. È edito da Skira (256 pagine, 19,00 euro).