Arturo Carlo Quintavalle, storico dell’arte, ha insegnato all’Università di Parma, scritto una serie importante di libri. E nelle sue ricerche non ha trascurato le cartoline.
“Mi sono interessato di fotografia per ragioni professionali”, risponde il professore in questa intervista a “Vaccari news”. “Dunque ho studiato fotografie di opere d’arte, di chiese, magari anche di paesaggi. Poi, dagli anni Cinquanta, mi sono occupato di «arti minori», come allora le chiamavano, e quindi di fotografia e di cartoline illustrate, ma anche di santini, etichette di vino, magari tappi di bibite («sinalcoli» li chiamavamo). Era il conflitto fra le ultime cedrate Tassoni e la Coca-Cola. Rovinosamente perso dalle prime. Da un certo momento in poi i problemi posti dalla Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Benjamin, Marcuse) hanno trasformato questi temi della cultura detta «di massa» in questioni di comunicazione, e quindi impatto dei «media»”.
Cosa sono, secondo lei, le cartoline? “Sono un modo per fissare una memoria, ma esse non sono altro che il tramite, la ipostatizzazione, di molte altre memorie, quelle dei pittori, dei disegnatori che hanno scoperto un paesaggio, un punto di vista, dunque un luogo dell’immaginario. Per fare un solo esempio: tutte le principali immagini di Venezia, e cito un solo luogo, piazza San Marco, sono state «scoperte» da Canaletto, o da Bellotto, o dai Guardi. Bellotto, poi, le immagini se le è andate anche a scoprire per mezza Europa. Pensiamo a quello che vuol dire la pittura per l’immagine che si tramanda delle città, Milano, Roma, Napoli, Palermo. Non c’è cartolina senza alle spalle un quadro”.
Nella loro evoluzione dell’ultimo secolo e mezzo si possono individuare delle tappe salienti? “Per fare la storia della cartolina serve fare la storia della fotografia. Se si riflette, le immagini di Anderson, Alinari, Brogi e di tanti altri sono l’invenzione del come guardare le nostre città, del come si guardano attraverso i monumenti, oppure come esse sono identificate; è il caso di Napoli, attraverso le così dette «scene di genere»: così definivano i pittori le scene popolari, di ambiente. Dunque le campagne fotografiche su grandi lastre all’albumina, immagini che illustrano l’arte dell’Italia, o dell’Europa, o documentano i progressi tecnici, diciamo dalle stazioni ferroviarie alla tour Eiffel; dopo quelle campagne vengono le cartoline che, a fine Ottocento, diffondono e moltiplicano queste stesse immagini. Le cartoline poi muovono dai generi della pittura: paesaggio, magari natura morta, ritratto mediato da quelli dipinti e conservati nelle gallerie nazionali”.
Quindi, continuando nella storia, “c’è il dialogo fra cartoline e satira, e ci sono le cartoline simboliche che si moltiplicano con la Prima guerra mondiale, quelle dei baci e dei saluti, e poi vengono, con moltiplicazione esponenziale, le cartoline-battuta, le barzellette del commendatore con la segretaria sulle ginocchia e simili. Ancora, con la consapevolezza della fotografia come immagine del «vero» (idea del tutto errata, la fotografia non è più veritiera di un disegno), nelle immagini in cartolina appare una garanzia, la scritta «vera fotografia». Alla fine, però, con l’elettronica, la cartolina perde la propria funzione, una immagine per via elettronica elimina il problema di spedire per posta un documento del viaggio: scatti e invii col cellulare. Restano in piccole zone protette le foto firmate d’autore, diciamo Roiter a Venezia per fare un solo esempio. Certo, le nuove cartoline sono quelle elettroniche. Cambia dunque la tecnologia, non l’idea di inviare una immagine” (segue).