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editor Fabio Bonacina

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Il documento deve essere sottoscritto entro il 31 dicembre ed ora è passato al vaglio delle commissioni parlamentari. L’intervento alla Camera dell’amministratore delegato, Matteo Del Fante

L’ad Matteo Del Fante alla Camera
L’ad Matteo Del Fante alla Camera

In dirittura di arrivo il contratto di programma tra ministero allo Sviluppo economico e Poste italiane. Un confronto -ha ammesso l’amministratore delegato della società, Matteo Del Fante- avviato nei mesi scorsi e negli ultimi giorni approdato in Parlamento per gli esami di rito. Con l’obiettivo di firmarlo entro il 31 dicembre.

Dietro vi è un gruppo che conta su 12.800 uffici, 184mila persone (di cui 133mila alle dirette dipendenze), comprendendo 28mila portalettere e 30mila sportellisti. “Rimaniamo uno dei pochi presìdi istituzionali in tanti territori”, ha affermato durante l’audizione alla commissione trasporti, poste e telecomunicazioni della Camera.

La crisi della corrispondenza è nota: nel 2018, statisticamente ogni italiano ha ricevuto 38 oggetti; un francese o un tedesco hanno raggiunto quota 180. “Se ne avessimo il doppio -ha precisato- non verremmo qui a parlare del contratto di programma”. Difficile individuare i motivi: “abitudini, forse”, per tanti anni la percezione di un servizio “non particolarmente affidabile”, la sostituzione dal cartaceo al digitale, oltre 2.800 operatori concorrenti giunti sul mercato (la media europea è qualche decina).

Quanto ai pacchi, il gruppo ne ha movimentati 35 milioni nel 2017 e ritiene di arrivare a 100 con il 2022. Oggi la quota di Poste nel recapito colli alle famiglie (il cosiddetto “B2C”) è del 31%, mentre risulta solo del 14% quella per le aziende (il “B2B”); gli altri operatori maggiori sono stranieri. Amazon è il primo cliente del gruppo; “stiamo affrontando con loro il tema della rete che stanno creando… siamo sicuri di trovare un modus di coabitazione virtuoso per entrambi”. Il commercio elettronico è un triangolo dato dai pagamenti (dove Poste svolge una “grande battaglia” per essere dominante), dalla logistica (“ci difendiamo”), dalla piattaforma di vendita (su cui l’azienda esclude ogni intervento, pur avendoci provato, anni fa, con Poste shop). D’altro canto, “non esiste nessuno al mondo che faccia tutto”.

Il servizio universale, ovvero garantire il supporto anche laddove economicamente non conviene, costa all’azienda 600 milioni di euro l’anno; l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni riconosce l’onere tra i 350 ed i 400 e comunque lo Stato ne rimborsa 262,4, cifra che dovrebbe essere confermata anche nel prossimo accordo. Certo, vi sarebbe il fondo di compensazione (dotato di 89 milioni) cui devono partecipare i concorrenti, ma finora Agcom ha ritenuto di non impiegarlo. Quindi, l’azienda desidererebbe ampliare il perimetro del servizio universale per riequilibrare i conti in autonomia: ad esempio, nel Nord Europa si comincia a comprendere il corriere digitale.

E i contenuti del documento, che resterà quinquennale, quindi in essere dal 2020 al 2024? Alcune caratteristiche sono state presentate dallo stesso ad. Fra esse, si intende garantire una spinta importante ai servizi digitali rivolti alla pubblica amministrazione (come la consegna di documenti quali la carta d’identità elettronica e i certificati, comunicare in via informatica con la propria struttura, avviare supporti dedicati a determinate fasce di popolazione), alle imprese e ai cittadini. Si aggiunge un rinnovato impegno nella capillarità territoriale, garantendo il non abbandono delle sedi nei piccoli centri (è stato tolto il collegato obbligo di inviare il piano di chiusura al Mise). Al tempo stesso, però, si prevede una revisione nelle città, laddove vi sono presìdi troppo vicini e, al contrario, quartieri, magari nuovi, non serviti. Tenendo presente che il grande traffico agli sportelli un tempo era garantito dai bollettini (ora diminuito per le alternative esistenti), solo in parte bilanciato da ricariche e servizi finanziari (continua).




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